Sessualità: l’argomento tabù della disabilità

Sessualità-disabilità: un binomio di stereotipi e pregiudizi

Sulla sessualità Sigmund Freud, circa un secolo fa (1915-1917), scriveva che:

Il sessuale è innanzitutto lo sconveniente, ciò di cui non è lecito parlare

I tempi sono però cambiati, perciò è quasi impossibile pensare al “sessuale” come a un argomento proibito, come a un qualcosa di indecoroso. Tuttavia se ci addentriamo nelle pieghe della società odierna, ci accorgiamo di quanto il pensiero di Freud sia ancora attuale nel caso delle persone con disabilità, tenute fuori dalla sessualità, dimensione fondamentale della vita umana.

L’attuale contesto socio-culturale ricopre il binomio “disabilità-sessualità” di stereotipi e pregiudizi, che limitano il pieno riconoscimento dei diritti sessuali e affettivi delle persone con disabilità.

L’affettività e la sessualità sono diritti, bisogni e parti integranti delle biografie individuali.

Il vecchio modello medico, basato principalmente sulle cure mediche per la persona disabile, considerava tabù il discorso relativo alla sessualità.

Oggi, nonostante sia stato fatto molto in termini di miglioramento, alcuni pregiudizi ancora resistono dimostrando come il modello medico della disabilità fatichi a lasciare il passo a una maggiore “inclusività”.

Promuovere e sviluppare una società autenticamente inclusiva, vuol dire anche avvicinarci ad una più ampia comprensione e riflessione sulle tematiche legate a disabilità e sessualità.

 

Sessualità e disabilità: quali pregiudizi

Pensare ai limiti fisici, cognitivi e/o sensoriali è un presupposto che determina i principali pregiudizi che ancora oggi compromettono il diritto alla sessualità della persona con disabilità.

I pregiudizi generano incredulità verso il desiderio sessuale che una persona con disabilità può provare e la etichettano come:

  • Angelo asessuato.

 La persona viene vista completamente estranea agli istinti più bassi e primordiali della specie umana. Non le si riconosce non solo il diritto alla sessualità, ma, con tale etichetta, non vi è traccia di bisogno, istintività e desiderio. Si nega quindi una parte di quelle componenti che la rendono “essere umano” al pari di tutti gli altri, cioè quella relativa alla dimensione del bisogno.

  • Eterno bambino.

Le persone con disabilità non smettono mai di essere viste come i “figli di cui bisogna prendersi cura”, per questo è difficile pensare a un distacco netto dai genitori. Non appaiono mai cresciute, restano eterni bambini bisognosi di cure e coccole…e un bambino ovviamente non ha impulsi sessuali!

Questi pregiudizi influenzano la vita di queste persone e l’approccio alla sessualità di tutti coloro che le circondano.

In questo modo, inevitabilmente, si apre un varco tra la sessualità della persona con disabilità e quella della persona normodotata.

Non si tiene conto, però, che la disabilità, in particolare quella fisica, rappresenta una circostanza, nella quale ognuno nella vita può imbattersi a causa di un trauma o di una patologia.

Cancellare una parte del corpo, quindi, non significa eliminare la sfera emozionale e affettiva, la voglia di amare e di essere amati.

 

Come intervenire allora per abbattere i pregiudizi sulla sessualità e favorire l’inclusione?

Il primo passo da compiere consiste nel superare le nostre logiche illogiche:

  •  La logica della negazione. Si è consapevoli del problema, ma si preferisce negarlo, sia perché non si sa cosa fare, cosa dire, ma soprattutto perché non si sa come intervenire: questo avviene perché si sente forte la propria inadeguatezza e incapacità.
  • La logica della rimozione. E’ utile per smettere di vedere il problema, anche se quest’ultimo non scompare. Si agisce così perché il problema ci fa “male”, ci crea disagio e ci mette profondamente in crisi.
  • La logica dello scarto. Non si riesce a far convivere il problema con la nostra persona e l’altro, quindi seppur il problema venga identificato viene tenuto lontano dalla persona che lo vive.

L‘Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la sessualità come:

Modalità globale di essere della personalità nell’intreccio delle sue relazioni con gli altri e con il mondo. Inizia con la vita stessa della persona e si modella ed evolve lungo il corso di sviluppo della medesima

 

La sessualità come “modalità globale della persona”

Se quindi la sessualità è “modalità globale della persona”, affrontare il tema della sessualità nella disabilità significa parlare del soggetto nella sua globalità.

La sessualità, per quanto è bisogno naturale, richiede di essere soddisfatta in forme culturalmente accettate e definite. Per essere accettata a livello culturale, deve rispettare, insieme ad altre, almeno la regola di “decenza”.

Dove c’è handicap, ma non c’è disabilità intellettiva, la persona è in grado di rispettare le regole. In questo caso la sessualità non va trattata come “diversa”, ma come libera scelta di un soggetto adulto in grado di intendere e di volere. Quello che in questo caso va combattuto è il pregiudizio e l’ipocrisia.

In caso di disabilità intellettiva, invece, il soggetto è incapace di acquisire da solo le regole di “decenza” venendo meno, così, i prerequisiti per l’accettazione culturale della sua sessualità. Non viene meno però il diritto all’espressione della sessualità, quindi ciò che qui è necessario, è l’intervento educativo.

A testimoniare l’importanza e l’efficacia dell’intervento educativo, ci sono le esperienze avute in diverse famiglie con la metodologia del Coach Familiare.

Si è constatato che nelle famiglie in cui è stato insegnato alla persona con disabilità come gestire le pulsioni sessuali, la convivenza è più serena.

Non si devono inibire le pulsioni sessuali, ma assecondare i bisogni della persona, fornendogli alternative e strumenti culturalmente accettabili in modo da non negare a nessuno, neppure agli “angeli asessuati” o agli “eterni bambini” di vivere e di esprimere la loro sessualità.

 

In conclusione

La sessualità per le persone con disabilità non è solo un fatto di strategie ed interventi educativi, ma piuttosto si rende necessaria una maggiore sensibilizzazione e attenzione così da non continuare a far finta che il disabile sia un eterno “angelo asessuato”.

Non avere il pieno diritto all’affettività per qualsiasi persona è un pò come morire!!!

Per conoscere in modo più dettagliato e approfondito i casi seguiti con il metodo del Coach Familiare, ti invito a leggere il libro: “Una vita Dopo di Noi. La vita adulta e autonoma delle persone con disabilità”, scritto dagli ideatori del metodo Pietro Berti e Serena Cartocci, in cui un intero capitolo è dedicato proprio agli argomenti tabù della disabilità, con riferimenti esclusivamente a casi realistici da loro seguiti.

 

 

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